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Il Volo di Icaro

Il volo di Icaro è una mostra personale di Onofrio Pepe, tenutasi nel 2000 nel Giardino di Palazzo Vivarelli-Colonna, a Firenze.

Tra le introduzioni al catalogo, vediamo nel dettaglio quella di Francesco Gurrieri e di Domenico Viggiano, esperti d’arte e curatori di monografie e introduzioni critiche. Con questo particolare evento, Pepe ebbe il suo battesimo nello spazio pubblico.

Nell’intenzione dell’allora Assessore alla Cultura del Comune di Firenze, Rosa Maria Di Giorgi, la mostra Il volo di Icaro mirava a proseguire un cammino di scoperta e valorizzazione di luoghi da dedicare al contemporaneo.

Sculture, altorilievi e bozzetti in bronzo si disponevano così nei vialetti e nelle aiuole del giardino Vivarelli-Colonna creando un percorso espositivo “inconsueto”: nella sinergia tra arte e natura, sembrava riflettersi l’aspirazione verso nuovi orizzonti tanto cara alle opere di Pepe.

La leggenda di Icaro è molto nota: il protagonista è rinchiuso col padre Dedalo nel labirinto di Creta. Così, quest’ultimo foggia per lui delle ali di penne e di cera, ma raccomandando al figlio di non volare troppo alto, per non rischiare di avvicinarsi troppo al sole e quindi di fondere le sue ali e cadere.

Icaro, preso dall’entusiasmo del volo, non valuta come dovrebbe l’ammonimento del padre e catastroficamente precipita nel mare, in “una metafora meravigliosa dell’aspirazione al cielo del genere umano, della sua sfrenata ambizione, della sua incomprensibile limitatezza” (Gurrieri).

È molto importante notare che proprio nel “Giardino del Mito” di Palazzo Vivarelli-Colonna, sede di aspirazioni e programmi per la cultura della città, si sognava che Icaro volasse ancora, con la sua voglia di vita e libertà.

“Icaro è come vorrei essere”, diceva di sé Pepe, per Viggiano “rivelando senza infringimenti la grande tragedia che il mito porta con sé: il sogno del giovane e la delusione dell’adulto”.

Le opere di Pepe sollevano la stessa simpatia e lo stesso dolore che istintivamente si prova, per l’appunto, nei confronti del risultato dell’inesperienza dei giovani:

“Tanti Icari, modellati con felice solarità in forme dolcissime, in corpi privi di asprezza, con la luce con essi dialogante, invitano l’occhio e la mano ad inesauste carezze, coinvolgendoci negli stessi impossibili voli.

Ma, se dopo il primo lirico approccio, si osserva con maggiore attenzione l’opera, che merita più approfondite letture, si scopre il risvolto amaro di Icaro: l’artista modella le ali quali fossero catene o intrecci sempre più duri e drammatici.

La luce cadendo su di essi resta fatalmente imprigionata, chiusa in un groviglio inestricabile e misterioso, come spesso sono i sogni che, come diceva Giovanni Pascoli sono ‘l’infinita ombra del vero’.

Sogni che sono premonitori di un volo senza speranza e senza futuro”.

(Viggiano)

Non a caso, Viggiano iniziava chiedendosi cosa fosse il mito, “se non una religione in cui non si crede più?”, citando di pari passo la risposta di Socrate: “si entra nel mito quando si entra nel rischio, e il mito è quell’incanto che in quel momento riusciamo a far agire in noi”.

I due critici che commentano il catalogo della personale dedicata all’incauto uomo alato, confermano la maestria scultorea di Pepe nella realizzazione di una tensione sempre presente, in ogni singola opera della serie:

“L’Icaro di Pepe è un Icaro fermo e teso nello stesso tempo, pronto al voto fatale, mai realmente convinto di sapere, volere o poter volare.

L’aspirazione al volo è bloccata in una ferma plasticità che rende testimonianza, attraverso la superficie dei corpi, di una sofferta ricerca della rappresentazione della bellezza sublimata dall’amore per il mito”.

(Viggiano)

Anche in quest’occasione, Pepe riesce a realizzare un simbolo universale, “portandosi  dietro l’umore e l’emozione di intere generazioni, educate alla leggenda” (Gurrieri).